Cambogia: dai Khmer a oggi

Riceviamo e volentieri pubblichiamo un articolo del giovane ricercatore, esperto di Cambogia, Gianmarco Biccini.

La Redazione #Eurasiaticanews

Esattamente cinquant’anni fa, il 17 aprile 1975, la capitale della Cambogia Phnom Penh venne conquistata dai khmer rossi, i guerriglieri comunisti comandati da Pol Pot, vincitori nella guerra civile che aveva a lungo insanguinato il Paese. Da quel momento i khmer imposero un regime totalitario responsabile della morte di circa due milioni di individui, circa un quarto della popolazione di quella che venne rinominata “Kampuchea Democratica”. 

La Nazione ottenne l’indipendenza dalla Francia nel 1954 divenne un Regno governato dal Principe Norodom Sihanouk. Il monarca instaurò un regime mono-partitico autoritario e violento che produsse una moderata crescita economica che avvantaggiò soprattutto l’élite del Paese.

I figli di questa élite nepotista e clientelare ebbero l’opportunità di studiare a Parigi, dove alcuni rimasero folgorati dagli scritti di Marx, Stalin e Mao, traendone un’interpretazione fanatica e violentemente rivoluzionaria. Tra loro spiccava colui che sarebbe diventato noto come il “Fratello Numero 1”, Pol Pot. Questo manipolo di studenti costituì il Partito Comunista di Kampuchea (PCK), che venne immediatamente bandito. Costretti alla clandestinità, i comunisti cambogiani vennero finanziati e armati dal Vietnam del Nord e dalla Cina.

Negli anni Sessanta lo scoppio della guerra nel vicino Vietnam avrebbe prodotto effetti devastanti anche in Cambogia. Il Paese era formalmente neutrale, ma i soldati nord-vietnamiti ne utilizzavano le regioni orientali come avamposto, nel silenzio-assenso di Sihanouk. 

La ritorsione degli Stati Uniti fu durissima: nel 1970 caldeggiarono il golpe del generale filo-americano e anti-comunista Lon Nol, che aveva dato vita a un regime ancor più autoritario e corrotto del precedente. Non solo: gli USA bombardarono indiscriminatamente le zone usate dalle truppe di Ho-Chi Minh, provocando all’incirca centomila morti civili tra i cambogiani. 

In tale contesto drammatico la popolazione aveva iniziato a considerare i khmer rossi come coloro che avrebbero liberato il Paese e garantito giustizia e uguaglianza. Moltissimi dei minorenni rimasti orfani a causa dei bombardamenti statunitensi sposarono la causa comunista, divenendo di fatto bambini-soldato. 

Quando nel 1973 gli USA si ritirarono dal Vietnam, smisero anche di sostenere la giunta militare di Lon Nol, che aveva cominciato a subire cocenti sconfitte contro i khmer rossi fino a capitolare nel 1975

Una volta ottenuto il potere, il PCK diede inizio a quello che viene definito da alcuni come il più grande “auto-genocidio” della storia. 

L’intera popolazione fu deportata in comuni agricole dove la proprietà privata e addirittura la moneta erano state abolite. Le persone furono costrette a lavorare nelle piantagioni di riso dall’alba al tramonto, senza giorni di ferie né di malattia. Molte famiglie vennero separate e i bambini, una volta compiuti i sette anni di età, vennero sottratti alle loro madri per essere indottrinati al culto del Partito. Questi eseguivano ciecamente gli ordini dei khmer rossi, tanto da divenire i delatori dei loro stessi genitori o addirittura soldati armati al servizio di Pol Pot. Le tecniche agricole erano talmente vetuste e inefficienti da provocare frequenti carestie. La forza-lavoro era costantemente affamata (tanto che la maggior parte delle morti sopraggiunsero per inedia) ed era proibito procurarsi il cibo in autonomia, pena la morte. 

La repressione – arbitraria e ideologica – era un aspetto fondante del regime. Per semplici sospetti centinaia di migliaia di individui vennero fatti sparire, torturati nei modi più sadici e uccisi (spesso a bastonate per risparmiare proiettili). Nel campo di prigionia Tuol Sleng (oggi adibito a Museo del Genocidio) vennero internati circa quattordicimila detenuti e ne sopravvissero soltanto sette. 

Si parla di auto-genocidio perché – nella delirante volontà di creare l’Uomo Nuovo – il PCK si rese responsabile dello sterminio dei cambogiani in modo tanto diretto quanto indiretto. 

I khmer rossi si resero responsabili del loro stesso tracollo. Più volte i guerriglieri sconfinarono in zone contese con il Vietnam e massacrarono interi villaggi. Nel 1979 Hanoi reagì invadendo la Cambogia e conquistando Phnom Penh in appena due settimane. Venne costituito un governo fantoccio, la Repubblica Popolare di Kampuchea (RPK), retta da cambogiani filo-vietnamti. Pol Pot e i suoi si rifugiarono al confine con la Thailandia e condussero un’intensa guerriglia fino al 1991, anno in cui vennero siglati gli Accordi di Parigi che misero fine a oltre vent’anni di tragedie. Nel 1994 si tennero le prime elezioni democratiche della storia del Paese: vinse in maniera poco limpida  Hun Sen, già presidente dell’RPK da svariati anni. Ex khmer rosso dissidente, egli è stato l’uomo forte della Cambogia fino all‘ anno prima quando, vinte nuovamente le elezioni, cadette  il potere a suo figlio Hun Manet. Il presidente-dittatore governò il Paese con piglio tirannico per quasi trent’anni, rendendo la Cambogia il fanalino di coda del sud-est asiatico, con una corruzione e una povertà seconda solo al Myanmar. 

I khmer rossi rifiutarono le elezioni del 1994 e si opposero al nuovo Governo ma ormai, deboli e impopolari, vennero gradualmente sconfitti. Pol Pot morì nel 1999 a settantaquattro anni, protetto dai suoi fedelissimi. Le Nazioni Unite istituirono il Tribunale Speciale per la Cambogia, il quale ebbe il mandato di processare i principali responsabili del genocidio. Ma esso fu ampiamente criticato per la durata dei processi, per le spese ingenti e per le condanne tardive. 

Oggi Phnom Penh soffre ancora gli strascichi del genocidio e della guerra civile. Dalla miriade di mine inesplose che quotidianamente mutilano qualche malcapitato all’assenza di prospettive future concrete, il Paese tenta di tenersi in equilibrio nel delicato sistema internazionale. Se da un lato si propone come partner più affidabile della Cina nel sud-est asiatico (concedendole l’apertura di una base militare navale), dall’altro attira le imprese occidentali (specialmente tessili) che intendono delocalizzare la produzione. Al netto delle macchinazioni geopolitiche, quasi il 18% della popolazione vive ancora in condizioni di povertà (nonostante la crescita economica sostenuta) e l’insicurezza alimentare e sanitaria.

In questo quadro urgono riforme strutturali che sembrano ancora molto lontane dall’essere implementate.

Gianmarco Biccini

Esperto in relazioni internazionali. Giornalista della European News Agency (Germania), corrispondente da Roma.