Rapporto 2024 Centro studi sulla Cina Contemporanea

È appena stato pubblicato il Rapporto 2024 Centro studi sulla Cina Contemporanea  dal titolo “Possiamo fare a meno della Cina?”. Il Centro studi sulla Cina contemporanea (CSCC) è un think tank indipendente con sede a Reggio Emilia. Presieduto dall’ex ambasciatore della Repubblica italiana presso la Repubblica popolare cinese, Alberto Bradanini, il CSCC focalizza le sue attività sulle relazioni Italia-Cina, Unione Euro-pea-Cina, sull’economia e le politiche della Repubblica popolare cinese.

Di grande interesse è la parte che il Rapporto 2024 dedica alle relazioni Italia-Cina. L’Italia riconobbe la Repubblica Popolare di Cina il 6 novembre 1970 e, da quel momento, i rapporti politici bilaterali sono stati guidati da un giudizioso realismo e non hanno fattori critici. Roma non si è mai spinta ad interferire sui temi sensibili per Pechino ( Taiwan, Tibet, la questione uigura, i diritti umani, Hong Kong)  e li ha sempre reputati affari interni cinesi. L’Italia fa parte di un sistema di alleanze centrato sugli Stati Uniti, i quali vedono attualmente nella Cina l’insidia maggiore alla loro egemonia. Se un giorno le tensioni tra le due superpotenze dovessero superare la soglia critica, i rispettivi alleati sarebbero tenuti ad allinearsi senza troppi temporeggiamenti. È questo un profilo solitamente sottaciuto che i dirigenti cinesi evitano di evocare negli incontri bilaterali, che tuttavia va tenuto a mente.

Nella valutazione cinese – secondo il Rapporto 2024 del CSCC – «l’Italia è un paese di medie dimensioni, in declino strutturale, alle prese con seri problemi esogeni ed endogeni, con autonomia politica e peso internazionale minimi. Il Paese deve fronteggiare un duplice livello di subordinazione: sul piano politico-militare l’obbedienza all’egemone atlantico, su quello economico-monetario-finanziario la subordinazione alle oligarchie nordeuropee (al cui centro si colloca il direttorio franco-tedesco). Il combinato disposto di tale binomio genera quel pilota automatico al quale l’Italia ha consegnato la sovranità politica e monetaria, e con essa la chiave del proprio futuro economico e sociale. L’Italia è a tutti gli effetti pratici un protettorato Usa, le cui truppe la occupano da oltre 78 anni, impedendole di elaborare un’autonoma azione politica, se non in linea con gli interessi degli Stati Uniti».

Si tratta di un giudizio severo della dirigenza cinese sull’Italia, seppure spesso taciuto, e si estende alla classe dirigente: un paese guidato da un ceto politico modesto e un’amministrazione obsoleta, alle prese con corruzione diffusa, criminalità organizzata e un’immigrazione incontrollata, che insieme si riflettono su crescita, qualità dei servizi, investimenti, politiche industriali, ricerca-accademia, tutela del lavoro e via dicendo, e dunque anche sulle relazioni con Pechino.

A quanto sopra deve aggiungersi l’oggettiva difficoltà a fronteggiare una globalizzazione, agguerrita e ingovernata, senza adeguati strumenti per bilanciare la de-industrializzazione, il calo di produttività e la scarsa capacità d’innovazione. Sono lontani i tempi (maggio 1991) quando la Penisola veniva certificata quarta potenza economica al mondo, dopo aver superato Francia e Regno Unito, e che anche Pechino considerava un interlocutore economico di forte rilevanza. Un’infantile autoesaltazione e un indecifrabile spirito di subordinazione impediscono alla classe dirigente italiana di riflettere sul senso strategico di quanto sopra e su una possibile uscita da tale cupo scenario.

Per quanto riguarda i flussi commerciali bilaterali hanno superato gli 80 miliardi di euro (Eurostat) nel 2022,. Le esportazioni cinesi verso l’Italia si sono attestate intorno ai 58-62 miliardi, quelle italiane in Cina sui 17-19 miliardi (l’approssimazione dei dati è dovuta ai flussi che transitano per Hong Kong e Rotterdam, inspiegabilmente nemmeno monitorati dal sistema e dunque conteggiati sui flussi bilaterali Olanda-Hong Kong-Cina). L’export italiano verso la Repubblica Popolare Cinese è costituito per i 4/5 da beni strumentali, mentre le note tre effe (fashion, food, forniture) non superano il 15% del valore, a conferma che l’industria meccanica rappresenta tuttora il settore di punta delle esportazioni italiane.

Il disavanzo italiano subisce un’impennata a partire dal 2001 con l’ingresso di Pechino nell’Organizzazione Mondiale del Commercio(OMC), passando dai 4 miliardi di euro agli attuali 41/43 (la curva del deficit UE ha un percorso analogo, da 30 miliardi nel 2000 a 395,7 nel 2022, su un totale di 856,7 miliardi).

L’accesso cinese all’OMC era stato propiziato nella seconda metà degli anni ’90 dalle grandi imprese statunitensi/occidentali, che da quel momento hanno ammassato ingenti profitti, producendo in Cina a costi bassi (delocalizzando per di più le produzioni più inquinanti) e riesportando nei ricchi mercati americani ed europei.

Il mercato italiano, sebbene tuttora interessante, presenta tuttavia caratteristiche di fungibilità per Pechino, a sua volta consapevole delle competenze europee (e non del governo di Roma) su temi importanti quali lo status di economia di mercato, le procedure antidumping, gli accordi e i contenziosi commerciali e altro ancora. Solo quando l’Italia fa sentire la sua voce nelle istanze UE (talvolta accade), lo sguardo di Pechino si fa più attento alle rivendicazioni di Roma.

Carlo Marino

#Eurasiaticanews

Esperto in relazioni internazionali. Giornalista della European News Agency (Germania), corrispondente da Roma.